Apparso per la prima volta nel 1964, Il male oscuro ottenne subito un grande successo, vincendo nello stesso anno il Premio Viareggio e il Premio Campiello. L’apprezzamento critico che ne seguí, tuttavia, non colse forse pienamente la grandezza di quest’opera e della figura di Giuseppe Berto nel panorama della letteratura italiana del secondo Novecento.
Come sovente accade, questo romanzo e lo stesso Berto conoscono forse soltanto oggi quella che Benja-min definiva «l’ora della leggibilità ». Comparato con le opere di quell’epoca caratterizzata da una società in piena espansione, Il male oscuro, come nota Emanuele Trevi nello scritto che accompagna questa nuova e-dizione, appare come «lo specchio, frantumato ma straordinariamente nitido, di un intero mondo, di un’epoca storica», un capolavoro assoluto dotato di «un’autorevolezza paradossale, che si basa sulla travol-gente energia degli stati d’animo».
Come i grandi libri, il romanzo presuppone una genealogia. Berto ha ammesso piú volte il suo debito con La coscienza di Zeno di Svevo e La cognizione del dolore di Gadda, dalla quale ricavò il titolo stesso del suo libro. Il male oscuro, tuttavia, segna una svolta fondamentale rispetto a queste opere precorritrici: non de-scrive semplicemente una nevrosi, ma la mima e la incarna. Il suo linguaggio è la manifestazione stessa del male, «l’epifania tragicomica della sua oscurità» (Trevi). Un’assoluta novità artistica e letteraria che Berto non esitò a battezzare «stile psicoanalitico».
Una prosa modernissima che, narrando di un male assolutamente personale, fa scorrere davanti ai nostri occhi «la Roma della Dolce Vita e di via Veneto, i medici e le loro contrastanti e fallaci diagnosi, l’industria del cinema con tutte le sue bassezze e le sue assurde viltà, la famiglia borghese e la sua economia domestica, i cambiamenti del costume sessuale, i rotocalchi a colori e le villeggiature in montagna»… la malattia di un’epoca apparentemente felice.
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Bloom
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